sabato 22 marzo 2008

LA RESURREZIONE.

Non sono un esperto per immaginare di poter entrare nel dibattito aperto da Emanuele Severino con l’Elzeviro del 30 luglio scorso intitolato “la resurrezione non è la prova di Dio”, sono soltanto uno che s’interessa dei temi affrontati nell’elzeviro perché tra di essi si dovrebbero trovare le risposte alle domande sul senso della vita e della morte. Risposte che, evidentemente, dovrebbero interessare a tutti gli uomini e non solo ai filosofi.
Da ricercatore quindi, vorrei dire che non mi piace il tema venga posto nei termini dell’economia della salvezza. Non mi va di pensare ci sia un dare dovuto ad Adamo pareggiato con l’avere legato alla morte di Cristo e quindi esterno e comunque estraneo al mio essere. Dovrei credere proprio perché è assurdo, credo quia absurdum, ma se accettassi questa impostazione tanto varrebbe che rinunciassi a cercare. Potrei fermarmi ed attendere la fede, ma la fede, si sa, non dipende da me: è il risultato d’un Dio che cerca l’uomo non d’un uomo che cerca Dio. Ma in attesa d’essere cercato e trovato da Dio l’uomo cosa può fare? Credo sia un dovere esistenziale quello di cercare, pur con il rischio di non trovare, di dovere ammettere alla fine che quaesivi et non inveni.
Ma certamente non partendo dalla resurrezione, perché questa è connessa con la fede. Come dice Paolo se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede. Se non dovesse essere un atto di fede ci si potrebbe anche chiedere: risorto come? Cosa significa il termine risorto se i due discepoli di Emmaus non lo riconoscono, e Tommaso per credere vuol toccare la ferita nel costato. Come se trovandomi davanti a mio padre redivivo, per riconoscerlo, gli chiedessi di mostrarmi le cicatrici delle ferite di guerra.
Al di là dei dettagli della ricostruzione storica, fermandoci alla resurrezione mi sembra che ci facciamo fuorviare da Paolo che da fariseo credeva nelle resurrezione di corpi, e che alla luce di questa sua precedente convinzione reinterpreta il messaggio di Cristo. Ma Paolo è uno che resta folgorato sulla strada per Damasco e poi se ne va a predicare il suo cristianesimo e solo dopo tre anni sente le necessità di venire a Gerusalemme a confrontarsi con quelli che avevano vissuto con il Cristo e che quindi sapevano che cosa aveva veramente detto. A Paolo evidentemente non interessava che cosa aveva detto, ma soltanto il fatto che si potesse dire che era risorto, a conferma della sua fede nella resurrezione.
A me, a noi, prima del sapere se sia risorto a meno, pare logico comunque andare prima da quelli di Gerusalemme per capire se in quello che ha detto in vita c’è una chiave che serva ad aprire nuove risposte alle nostre domande, una chiave da potersi utilizzare indipendentemente dalla fede.
Scopriamo così che la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù (della sua venuta al mondo, non della sua morte!). Scopriamo che la verità che ci rende liberi è che Dio ha fatto un dono agli uomini “di diventare figli di Dio”, che Dio ha mandato il figlio perché chi crede in lui, (in ciò che dice, non nella sua morte e resurrezione !), “non muoia ma abbia la vita eterna”. L’intuizione dell’uomo storico Gesù, quale si ricava dai Vangeli, è quindi quella d’una divinità dell’uomo (figlio di Dio), presupposto perché sia credibile la possibilità per l’uomo della vita eterna. La rivelazione quindi d’una spiritualità dell’uomo che resta nell’eternità, dopo una esperienza momentanea nel tempo attraverso il corpo. Esseri immortali in un corpo mortale. Un concetto al quale si può credere o non credere, ma che ha comunque una sua logica, una sua razionalità. Non è assurdo!
Con questo, come dice anche Pierangelo Sequeri, intervenendo nel dibattito, forse si mette a rischio ogni religione, ma non certo, a mio avviso, “ogni umanesimo”, che anzi, al contrario, si giunge alla piena affermazione dell’uomo e della sua libertà. La messa a rischio delle religioni è d’altra parte un altro dei messaggi forti che riportano quelli di Gerusalemme (prima della rielaborazione di Paolo) quando ricordano le parole rivolte alla samaritana: viene un’ora, anzi è già venuta in cui l’adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme, l’ora in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo spirito e dalla verità di Dio.
C’è uno spazio quindi, al di qua della fede e al di qua delle religioni per un “uomo figlio di Dio” che meriterebbe di essere ancor più indagato ed approfondito. In termini volutamente forse troppo elementari, da catechesi, è ciò che anch’io ho cercato di fare nel libro che ho pubblicato, per le edizioni Segno con lo pseudonimo di Diver Dalce e che ho intitolato appunto “Io, figlio di Dio”. Che ho anche riportato integralmente nel sito http://digilander.libero.it/Asterisco9/

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